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L'arcobaleno di Dio - Messaggio di Quaresima di S.E. Mons. Mario Russotto

Figlioli carissimi, tutti e ciascuno di voi, che nel mio cuore siete a pieno titolo residenti, desidero raggiungere con questo mio messaggio per il prossimo prezioso tempo di Quaresima. Vi assicuro che abitate ogni giorno la mia preghiera e all’altare vi presento al Signore così come siete: nella speranza e nella sofferenza, nella resistenza e nella malattia, nella quotidiana fatica e nella smarrita tristezza, nella notte della fede e nella luce della carità, nei silenzi eloquenti e negli sguardi spenti…

1. TUTTI IN TRINCEA

Proprio per quanto detto e ancor più per il non detto, in questa terza Quaresima che viviamo in regime di pandemia ho pensato di offrirvi uno spunto di riflessione su quel segno-simbolo, che abbiamo sbandierato da finestre e balconi a partire dal 10 marzo 2020, dopo l’annuncio del lockdown nazionale: l’arcobaleno. Allora una fiammata generale si è accesa e diffusa in Italia, e non solo, con quelle parole-slogan che di speranza e canti risuonavano nelle nostre case e nelle nostre città: Andrà tutto bene!

Ed eccoci ancora in guerra a combattere contro   un’invisibile   velenoso   (virus) “nemico”. Eccoci ancora nella trincea della resistenza per una “lotta continua” all’insegna dell’arcobaleno, che ha i colori della speranza e dell’audacia, perché noi siamo i raggi luminosi dell’unico Sole che sorge dall’alto: Cristo Gesù nostro Signore! Siamo le goccioline di pioggia rimaste sospese dopo la tempesta, che accolgono la rifrazione dei raggi solari generando un arcobaleno di colori.

2. MEMORIA E ABBRACCIO

Il perdurare estenuante della pandemia sta diffondendo sempre più, insieme al virus, anche paura e depressione, diffidenza nei confronti degli altri e sfiducia nel futuro, scoraggiamento e svuotamento… dell’interiorità, della fede, della passione per la vita, delle nostre chiese…

È come se un virale diluvio universale stesse soffocando la vita e la terra, mortificando ogni umana buona aspirazione, schiacciando ogni respiro di speranza, spegnendo ogni gemito d’amore. Ma quel primo universale diluvio ricreò una umanità nuova, donò nuovo cielo e nuova terra. E Dio stesso appese al chiodo dell’universo il suo arco di guerra, facendone un segno a colori di memoria e speranza, un visibile ricordo del suo patto-abbraccio d’amore con Noè e con tutta la famiglia umana: «Questo è il segno dell’alleanza che io pongo tra me e voi… Il mio arco pongo sulle nubi ed esso sarà il segno dell’alleanza tra me e la terra. Quando radunerò le nubi sulla terra e apparirà l’arco sulle nubi, ricorderò la mia alleanza che è tra me e voi… L’arco sarà sulle nubi e io lo guarderò per ricordare l’alleanza eterna tra Dio e ogni essere che vive in ogni carne che è sulla terra» (Gen 9,12-16).

L’arcobaleno, così, non è più un arco di guerra ma un segno di alleanza tra cielo e terra, tra gli uomini e tra le diverse generazioni. È simbolo di pace e di speranza, di interiore risveglio, di una nuova primavera… tutta a colori, nella quale anche i rami spogli e nudi vedono spuntare piccole gemme di vita.

Il grande scienziato Isaac Newton, proprio durante un’epidemia di peste alla fine del XVII secolo, studiando la natura della luce spiegò scientificamente la formazione dell’arcobaleno. E come dopo la pioggia torna il sereno, così dopo una tempesta la luce del sole attraversa le gocce d’acqua rimaste in sospensione nell’aria e si distende ad arco, generando sette principali colori con una straordinaria molteplicità di sfumature. È come se il cielo ci invitasse a costruire l’unità nella diversità, a ritrovare il coraggio di risorgere, ad alzare lo sguardo per contemplare l’infinito orizzonte di Dio nel segno della speranza, nel segno della pace dell’anima e dell’abbraccio con l’universo intero.

Se l’arcobaleno biblico nel Libro di Genesi è un segno di Dio nella sua alleanza con l’umanità, ancor più esso è un segno per Dio. Per noi l’arcobaleno è segno che mai siamo soli, mai abbandonati dal Signore! Ma questo segno di luce e di radiosa consolazione ci testimonia la memoria di Dio. L’arcobaleno serve a Dio per “risvegliare” la sua memoria nei confronti dell’umanità: è il suo ri-cordarsi del patto con noi, è la mano del Signore che ripassa nel suo cuore la promessa e l’impegno di prendersi cura dell’umanità. Per sempre!

«Quando radunerò le nubi sulla terra e apparirà l’arco sulle nubi ricorderò la mia alleanza che è tra me e voi… L’arco sulle nubi io lo guarderò per ricordare l’alleanza eterna…» (Gen 9,14-16).

L’arcobaleno riaccende la memoria nel cuore di Dio e la speranza nel cuore dell’uomo. Sì, andrà tutto bene… se noi nasciamo alla responsabilità della custodia della vita, alla passione d’amore nella prossimità e nella resistenza dinanzi alle difficoltà! Perché l’arcobaleno è luce di risurrezione, è tutta la nostra vita a colori nell’abbraccio solidale della comunione! E allora, esorta il Libro di Siracide: «Osserva l’arcobaleno e benedici Colui che l’ha fatto, è bellissimo nel suo splendore. Avvolge il cielo come un cerchio di gloria, l’hanno teso le mani dell’Altissimo» (Sir 43,11-12). L’arcobaleno è il futuro già presente! È il presente lanciato dall’arco di Dio come una freccia verso il futuro dell’umanità, lavata purificata rinnovata dal sangue di Cristo Gesù. Per questo l’ultimo Libro della Bibbia, Apocalisse, canta il futuro dell’umanità abbracciata da Dio nel segno di «un angelo… avvolto in una nube, la fronte cinta di un arcobaleno; aveva la faccia come il sole e le gambe come colonne di fuoco» (Ap 10,1).

3. LA CROCE ARCOBALENO DI LUCE

«L’arco sarà sulle nubi e io lo guarderò per ricordare l’alleanza eterna tra Dio e ogni essere che vive in ogni carne che è sulla terra» (Gen 9,16). Se l’arcobaleno accende la memoria di Dio, è anche vero che il soggetto del “guardare per ricordare” sono io, piccola fragile finitudine dell’essere umano. Sono io, nei miei smarrimenti e interiori svuotamenti, chiamato a guardare per ricordare che Dio sempre si ricorda di me. E anche nelle tempeste della vita Lui mi avvolge nel suo abbraccio a colori. E dunque… nessuno è mai solo nella difficile avventura della vita! In fondo, quel che vale non è non cadere – per noi   deboli uomini e donne è quasi impossibile –, ma è risvegliare in noi la memoria e il coraggio della fede per rialzarci e riprendere il cammino dopo ogni caduta, certi di essere per sempre calamitati verso l’Alto dall’arcobaleno di Dio.

Nell’Antico Testamento il profeta Zaccaria proclama: «Guarderanno a colui che hanno trafitto» (Zc 12,10). Nel Nuovo Testamento Gesù dichiara: «Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32). Quell’arcobaleno appeso al cielo è Cristo Signore sospeso e inchiodato al legno della Croce! E tutti Lui attira a sé, proprio come l’arcobaleno attira gli sguardi di tutti, colmi di stupore, verso quella meraviglia sospesa fra cielo e terra. Tutti senza distinzione. Tutti: assassini e assassinati. Tutti: uomini e donne, piccoli e grandi. Tutti: deboli e potenti, credenti e non credenti, dispersi e lontani. Tutti… Gesù Crocifisso è il punto dove tutti, uomini e donne dispersi e lontani, si incontrano: perché ciascuno guarda nella stessa direzione, attratti tutti da Colui che abbiamo trafitto. E Lui attrae affascinando d’Amore e di stupore. Colui che hanno trafitto è la rivelazione della bellezza e della fedeltà dell’amore di Dio fino allo spreco! «Credere nel Cristo crocifisso significa credere che l’amore è presente nel mondo e che questo amore è più potente di ogni genere di male in cui l’uomo,   l’umanità,   il   mondo   sono coinvolti» (S. Giovanni Paolo II, Dives in misericordia, n. 7).

«L’arco sarà sulle nubi e io lo guarderò per ricordare l’alleanza eterna tra Dio e ogni essere che vive in ogni carne che è sulla terra» (Gen 9,16). L’arcobaleno è una curva terra-cielo-terra. È un arco puntato verso il cielo, come se Dio si rendesse pronto a lasciarsi trafiggere dalle nostre frecce. Ed è proprio Dio a volgere l’arco contro se stesso! Lui non lo punta mai contro di noi, non ci trafigge per i nostri peccati, ma li prende su di sé come frecce appuntite, trasformando ogni nostra distruzione in una nuova creazione. E quell’arco a colori è anche simbolo di gravidanza, perché la terra è sempre nelle doglie, sempre sul punto di partorire vita nuova, una vita a colori nell’abbraccio dell’arcobaleno di Dio.

E concludo osando mettere in bocca a Dio le parole di Mogol cantate da Adriano Celentano: «L’arcobaleno è il mio messaggio d’amore, può darsi un giorno ti riesca a toccare. Con i colori si può cancellare il più avvilente e desolante squallore». Buona Quaresima… nel segno della benedizione del Signore!

Vostro aff.mo Mario Russotto Vescovo

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Don Giuseppe De Luca: i poveri, la cultura e la storia della pietà

Nella Roma Capitale d’Italia trova un suo posto particolare un grande sacerdote, erudito, che ha inciso a fondo nella cultura italiana, creando e guidando il lavoro delle Edizioni di storia e letteratura e divenendo intimo di Giovanni XXIII.  Nel 1951 per quelle edizioni sarebbe uscita, dopo profonda meditazione, la sua introduzione al primo volume dell’Archivio italiano per la storia della pietà, il suo scritto più importante che introduceva la raccolta di testi significativi di un incontro dell’uomo con Dio, capaci di permettere di guardare «al cuore dell’uomo» per vedervi «il suo amore o il suo odio di Dio». In quella introduzione don De Luca dava della sua «pietà» una definizione che rinviava a «quello stato, e quello solo della vita dell’uomo quando egli ha presente in sé, per consuetudine di amore, Iddio».

La storia di don Giuseppe inizia in provincia di Potenza, a Sasso di Castalda, dove nacque il 15 settembre 1898. La madre, Raffaella Viscardi, colpita da febbri, morì presto e il padre, Vincenzo, lo affidò alla nonna materna in un villaggio vicino. Il piccolo Giuseppe crebbe in un ambiente povero ed isolato, circondato da contadini parsimoniosi e di fede grande e semplice. Di quella prima stagione della sua vita conservò l’amore per il suo Mezzogiorno e la spinta ad indagare la «pietà». A 11 anni si trasferì al Seminario di Ferentino e due anni dopo, nel 1911, approdò a Roma, prima al Seminario Minore, all’epoca situato nell’edificio di Sant’Apollinare, fucina di un clero «romano» intriso – come scriveva Ernesto Bonaiuti – di «senso universalistico della fraternità umana nei vincoli spirituali e carismatici della Chiesa, fatto di bonomia leggermente ironica e di comprensione sconfinatamente caritatevole». Alla vigilia della prima guerra mondiale Giuseppe entrò nel Seminario Maggiore del Laterano, dove apprese l’amore per la ricerca storica dal suo professore don Pio Paschini. Ma la stagione in cui si innamorò della storia religiosa era anche una delle meno favorevoli per la disciplina in campo ecclesiastico, dove il vento dell’antimodernismo aveva piegato con rigido controllo gli aneliti di rinnovamento della ricerca.

Don De Luca venne ordinato il 30 ottobre 1921 ma intanto l’anno precedente si era iscritto al corso di Paleografia e diplomatica del Vaticano e alla facoltà di Lettere di Roma, allacciando rapporti di lavoro e amicizia con alcune delle intelligenze più vive del tempo. Per certi versi il giovane cercò maestri anche fuori dal Seminario per rendere più solida la sua preparazione. Nel 1923 divenne cappellano degli anziani romani indigenti, raccolti ed ospitati dalle Piccole Sorelle dei Poveri nella casa di piazza San Pietro in Vincoli. La famiglia religiosa, fondata da Giovanna Jugan, poi beatificata da Giovanni Paolo II nel 1982 e canonizzata da Benedetto XVI nel 2009, viveva di elemosina e aveva aperto una casa a Roma grazie al sostegno di Leone XIII. In quella sede don De Luca avrebbe operato fino al 1948, unendo la cura spirituale dei poveri alla raccolta di una ricca biblioteca di testi antichi e moderni di Roma con titoli sulla storia religiosa e della spiritualità.

Nonostante la passione per lo studio, per una serie di vicende, non giunse mai alla laurea in Lettere ma per tutta la vita frequentò assiduamente biblioteche e archivi. Dalla metà degli anni Venti alla metà dei Trenta, pur non dimettendo la ricerca, fu molto attivo in campo giornalistico nelle testate cattoliche. Il suo scopo, definito all’indomani dell’istaurazione della dittatura fascista, era quello di cercare di fare «a Roma qualcosa di buono e di serio, per la cultura». Il suo obiettivo era quello di agire su porzioni ristrette della gioventù cattolica per costruire una élite intellettuale che si proponesse come parte di una borghesia capace di coniugare cultura e politica. Bisognava far recuperare ad un cattolicesimo che intellettualmente gli pareva smorto, influenza sull’opinione pubblica. Un suo articolo del 1924 su una rivista giovanile dell’Azione cattolica del Lazio si intitolava Formare una classe dirigente.  Ma quel progetto, proprio per il carattere elitario, non si conciliava con l’esigenza di Giovanni Battista Montini, allora assistente ecclesiastico della Fuci, per una formazione che raggiungesse una dimensione popolare, come si confaceva in una stagione in cui cedere culturalmente al totalitarismo avrebbe voluto dire condannarsi ad essere minoranza.

Don De Luca, attraverso l’amicizia con Papini, avrebbe collaborato alla rivista, diretta da Bargellini, Il Frontespizio. E negli stessi anni la sua firma era presente su L’Osservatore Romano L’Avvenire con interventi di carattere letterario o con recensioni. Maturò in lui, con la lezione di Lucien Febvre e della storiografia francese, l’esigenza di indagare la “pietà vissuta”, che dimostrava il legame col divino. Intanto nel 1942 diede vita con Alfredo Schiaffini alle Edizioni di storia e letteratura e dopo la guerra avviò altre collane che dal campo della erudizione arrivavano alla storia moderna e contemporanea, con l’obiettivo di promuovere anche le ricerche di giovani autori. E in quella stagione gradualmente si legò in amicizia ad alcune delle figure che avrebbero segnato la storiografia italiana, da Cantimori a Chabod, da Saitta a De Felice.

Fu vicino, anche non condividendone le idee, ad alcuni dei giovani intellettuali che formarono nel 1944 il partito della Sinistra cristiana, e per loro rappresentò sempre un punto di riferimento sacerdotale, pure a seguito della condanna che li colpì. Ed ebbe rapporti con esponenti del mondo politico che avevano costruito la Repubblica (da Togliatti a De Gasperi, da Segni a Colombo) chiedendo loro sostegno per realizzare le sue opere editoriali. Ma la stagione più densa fu quella vicino a Giovanni XXIII, che con la ricerca storica aveva grande dimestichezza. Roncalli già da Patriarca di Venezia lo aveva coinvolto sul tema della storia della pietà veneta. Da Papa lo nominò prima consultore, e poi membro della Pontificia Commissione preparatoria degli studi e dei seminari. Il “Papa buono” era convinto che la cultura storica dovesse essere bagaglio indispensabile per il buon sacerdote e per il cristiano. Quando ormai, vicino alla fine, fu ricoverato al Fatebenefratelli sull’Isola Tiberina, don De Luca ricevette la visita del Papa che gli regalò un’ultima grande gioia. Don Giuseppe si spense in quell’ospedale il 19 marzo 1962.

Da Romasette.it

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Papa Francesco: la Chiesa accanto alle «ferite» degli sposi

Nei tribunali ecclesiastici si «manifesta il volto misericordioso della Chiesa: volto materno che si china su ogni fedele per aiutarlo a fare verità su di sé, risollevandolo dalle sconfitte e dalle fatiche e invitandolo a vivere in pienezza la bellezza del Vangelo». Le ferite di cui parla papa Francesco sono soprattutto quelle per il fallimento di un matrimonio. Tema che il Pontefice mette al centro del discorso di ieri nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico di fronte ai prelati uditori, agli officiali, agli avvocati e ai collaboratori del tribunale della Rota Romana per l’inaugurazione dell’anno giudiziario.

Nell’anno dedicato alla famiglia l’incontro diventa «l’occasione per riflettere sulla sinodalità nei processi di nullità matrimoniale», afferma Francesco. Processi che, spiega monsignor Alejandro Arellano Cedillo, decano della Rota romana, nel saluto all’inizio dell’udienza, sono «parte integrante della pastorale matrimoniale e familiare». E aggiunge che si tratta di «un vero e proprio servizio ecclesiale, di una missione che si innesta pienamente nell’ambito della sollecitudine pastorale della Chiesa per il bene dei coniugi e delle loro famiglie».​

Se la sinodalità implica il camminare insieme, sottolinea il Pontefice, va superata «una visione distorta delle cause matrimoniali, come se in esse si affermassero dei meri interessi soggettivi» e «va riscoperto che tutti i partecipanti al processo sono chiamati a concorrere al medesimo obiettivo, quello di far risplendere la verità su un’unione concreta tra un uomo e una donna, arrivando alla conclusione sull’esistenza o meno di un vero matrimonio tra di loro».

Una verità che, «se davvero amata, diventa liberatrice», precisa Francesco. Ecco perché è necessario «un esercizio costante di ascolto», puntualizza. E avverte: «Anche nell’attività giudiziale bisogna favorire la cultura dell’ascolto, presupposto della cultura dell’incontro. Perciò sono deleterie le risposte standard ai problemi concreti delle singole persone. Ciascuna di esse, con la sua esperienza spesso segnata dal dolore, costituisce una concreta “periferia esistenziale”». Poi occorre il discernimento che «permette di leggere la concreta situazione matrimoniale alla luce della Parola di Dio e del magistero della Chiesa».

Del resto, specifica il Pontefice, «il Sinodo non è soltanto chiedere opinioni, non è un’inchiesta, per cui vale lo stesso quello che ognuno dice». E ammonisce anche: «Non è ammissibile una qualsiasi volontaria alterazione o manipolazione dei fatti, volta a ottenere un risultato pragmaticamente desiderato». Persino «il contraddittorio tra le parti dovrebbe svolgersi sempre nell’adesione sincera a ciò che per ognuno appare come vero, senza chiudersi nella propria visione».

Il Papa chiede anche che prima del processo ci sia sempre un «aiuto pastorale». «Non può mancare – ricorda – lo sforzo per scoprire la verità sulla propria unione, presupposto indispensabile per poter arrivare alla guarigione delle ferite. In questa cornice si comprende quanto sia importante l’impegno per favorire il perdono e la riconciliazione tra i coniugi, e anche per convalidare eventualmente il matrimonio nullo quando ciò è possibile e prudente. Così si comprende anche che la dichiarazione di nullità non va presentata come se fosse l’unico obiettivo da raggiungere di fronte a una crisi matrimoniale, o come se ciò costituisse un diritto a prescindere dai fatti». Pertanto, conclude il Pontefice, il tribunale ecclesiastico è «al servizio della giustizia», ma tutto ciò è «inseparabile dalla verità e, in definitiva, dalla salus animarum», dalla salvezza delle anime.

Da Avvenire.it

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Sacre Quarantore 2022

Dal 14 al 17 febbraio

«La Chiesa vive dell'Eucaristia. Questa verità non esprime soltanto un'esperienza quotidiana di fede, ma racchiude in sintesi il nucleo del mistero della Chiesa. Con gioia essa sperimenta in molteplici forme il continuo avverarsi della promessa: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20); ma nella sacra Eucaristia, per la conversione del pane e del vino nel corpo e nel sangue del Signore, essa gioisce di questa presenza con un'intensità unica. Da quando, con la Pentecoste, la Chiesa, Popolo della Nuova Alleanza, ha cominciato il suo cammino pellegrinante verso la patria celeste, il Divin Sacramento ha continuato a scandire le sue giornate, riempiendole di fiduciosa speranza».

San Giovanni Poalo II

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