News

“I fratelli Karamazov” e le loro domande capitali In evidenza

Torna in una nuova traduzione, fluida, aggiornata e scorrevole, quindi benemerita, di Claudia Zonghetti, il capolavoro di Fëdor Michajlovic Dostoevskij, di cui quest’anno abbiamo celebrato il bicentenario della nascita, I fratelli Karamazov (Einaudi, due volumi, pp. 1080, 32 euro) che tutti, prima o poi, dovrebbero leggere e/o rileggere. Le interpretazioni che possiamo dare di questo romanzo immortale, ultimo del grande scrittore, pubblicato per la prima volta a puntate sul Messaggero russo nel 1880, cambiano prospettiva secondo le stagioni della vita. Da giovani lo amiamo magari senza comprenderlo appieno. Da adulti non possiamo far altro che arrenderci di fronte alla potenza delle domande capitali poste dalla narrazione, le quali riguardano il nostro modo di stare al mondo: come dobbiamo vivere? È possibile mettere insieme Dio e la libertà umana? Quale valore attribuire alla giustizia terrena? Dove trovare il senso dell’esistenza?

Il nocciolo tematico, la storia di un parricidio, non rende certo la complessità della storia: Fëdor Pavlovic, vecchio dissoluto carico d’energia vitale, viene trovato morto nella sua casa ai margini del villaggio. L’accusa cade su Dmitrij, primogenito, come il padre innamorato di Grušenka, affascinante e sfrenata, ma attratto anche da Katerina Ivanovna, alla quale ha saldato un antico debito. Tuttavia il vero esecutore del crimine risulterà Smerdjakov, epilettico figlio bastardo tenuto in casa come un servo, istigato da Ivan, secondogenito, ateo dichiarato, autore di un componimento, La Leggenda del Santo Inquisitore, in cui immagina il ritorno di Gesù in Terra, nella Spagna del XV secolo.

Baricentro strutturale del libro è Alëša, dalla forte sensibilità religiosa, il più giovane tra i fratelli, tentato dalla vita eremitica ma segretamente attratto da Liza, al quale il monaco Zosima, anch’egli dal passato tempestoso, sorta di fra Cristoforo russo, consiglia di restare nel mondo: «Lì c’è più bisogno di te!», in sostanza gli dice dopo aver visto coi suoi occhi le tensioni presenti nel gruppo familiare. Alëša, nonostante gli sforzi, non riuscirà a risolvere il dissidio fra i suoi parenti, che resterà dentro di lui come una ferita insanabile e sanguinosa, ma diventerà un punto di riferimento essenziale per un gruppo di ragazzi, prima in contrasto fra loro, poi legati da suprema amicizia, che lo eleggeranno a maestro spirituale.

In questo finale luminoso, tutt’altro che compiuto, dal momento che non sappiamo se Dmitrij, ingiustamente condannato ai lavori forzati, riuscirà a fuggire in America, Dostoevskij, non più uomo del sottosuolo, ci lascia una speranza di superstite fraternità, dolorosamente segnato e consapevole del male umano, ma determinato a superarlo a ogni costo con la proclamata fede nel mondo nuovo che le giovani generazioni di volta in volta allo stesso tempo incarnano e portano avanti.

Da Romasette.it

Log in