Don Giuseppe De Luca: i poveri, la cultura e la storia della pietà In evidenza
Nella Roma Capitale d’Italia trova un suo posto particolare un grande sacerdote, erudito, che ha inciso a fondo nella cultura italiana, creando e guidando il lavoro delle Edizioni di storia e letteratura e divenendo intimo di Giovanni XXIII. Nel 1951 per quelle edizioni sarebbe uscita, dopo profonda meditazione, la sua introduzione al primo volume dell’Archivio italiano per la storia della pietà, il suo scritto più importante che introduceva la raccolta di testi significativi di un incontro dell’uomo con Dio, capaci di permettere di guardare «al cuore dell’uomo» per vedervi «il suo amore o il suo odio di Dio». In quella introduzione don De Luca dava della sua «pietà» una definizione che rinviava a «quello stato, e quello solo della vita dell’uomo quando egli ha presente in sé, per consuetudine di amore, Iddio».
La storia di don Giuseppe inizia in provincia di Potenza, a Sasso di Castalda, dove nacque il 15 settembre 1898. La madre, Raffaella Viscardi, colpita da febbri, morì presto e il padre, Vincenzo, lo affidò alla nonna materna in un villaggio vicino. Il piccolo Giuseppe crebbe in un ambiente povero ed isolato, circondato da contadini parsimoniosi e di fede grande e semplice. Di quella prima stagione della sua vita conservò l’amore per il suo Mezzogiorno e la spinta ad indagare la «pietà». A 11 anni si trasferì al Seminario di Ferentino e due anni dopo, nel 1911, approdò a Roma, prima al Seminario Minore, all’epoca situato nell’edificio di Sant’Apollinare, fucina di un clero «romano» intriso – come scriveva Ernesto Bonaiuti – di «senso universalistico della fraternità umana nei vincoli spirituali e carismatici della Chiesa, fatto di bonomia leggermente ironica e di comprensione sconfinatamente caritatevole». Alla vigilia della prima guerra mondiale Giuseppe entrò nel Seminario Maggiore del Laterano, dove apprese l’amore per la ricerca storica dal suo professore don Pio Paschini. Ma la stagione in cui si innamorò della storia religiosa era anche una delle meno favorevoli per la disciplina in campo ecclesiastico, dove il vento dell’antimodernismo aveva piegato con rigido controllo gli aneliti di rinnovamento della ricerca.
Don De Luca venne ordinato il 30 ottobre 1921 ma intanto l’anno precedente si era iscritto al corso di Paleografia e diplomatica del Vaticano e alla facoltà di Lettere di Roma, allacciando rapporti di lavoro e amicizia con alcune delle intelligenze più vive del tempo. Per certi versi il giovane cercò maestri anche fuori dal Seminario per rendere più solida la sua preparazione. Nel 1923 divenne cappellano degli anziani romani indigenti, raccolti ed ospitati dalle Piccole Sorelle dei Poveri nella casa di piazza San Pietro in Vincoli. La famiglia religiosa, fondata da Giovanna Jugan, poi beatificata da Giovanni Paolo II nel 1982 e canonizzata da Benedetto XVI nel 2009, viveva di elemosina e aveva aperto una casa a Roma grazie al sostegno di Leone XIII. In quella sede don De Luca avrebbe operato fino al 1948, unendo la cura spirituale dei poveri alla raccolta di una ricca biblioteca di testi antichi e moderni di Roma con titoli sulla storia religiosa e della spiritualità.
Nonostante la passione per lo studio, per una serie di vicende, non giunse mai alla laurea in Lettere ma per tutta la vita frequentò assiduamente biblioteche e archivi. Dalla metà degli anni Venti alla metà dei Trenta, pur non dimettendo la ricerca, fu molto attivo in campo giornalistico nelle testate cattoliche. Il suo scopo, definito all’indomani dell’istaurazione della dittatura fascista, era quello di cercare di fare «a Roma qualcosa di buono e di serio, per la cultura». Il suo obiettivo era quello di agire su porzioni ristrette della gioventù cattolica per costruire una élite intellettuale che si proponesse come parte di una borghesia capace di coniugare cultura e politica. Bisognava far recuperare ad un cattolicesimo che intellettualmente gli pareva smorto, influenza sull’opinione pubblica. Un suo articolo del 1924 su una rivista giovanile dell’Azione cattolica del Lazio si intitolava Formare una classe dirigente. Ma quel progetto, proprio per il carattere elitario, non si conciliava con l’esigenza di Giovanni Battista Montini, allora assistente ecclesiastico della Fuci, per una formazione che raggiungesse una dimensione popolare, come si confaceva in una stagione in cui cedere culturalmente al totalitarismo avrebbe voluto dire condannarsi ad essere minoranza.
Don De Luca, attraverso l’amicizia con Papini, avrebbe collaborato alla rivista, diretta da Bargellini, Il Frontespizio. E negli stessi anni la sua firma era presente su L’Osservatore Romano e L’Avvenire con interventi di carattere letterario o con recensioni. Maturò in lui, con la lezione di Lucien Febvre e della storiografia francese, l’esigenza di indagare la “pietà vissuta”, che dimostrava il legame col divino. Intanto nel 1942 diede vita con Alfredo Schiaffini alle Edizioni di storia e letteratura e dopo la guerra avviò altre collane che dal campo della erudizione arrivavano alla storia moderna e contemporanea, con l’obiettivo di promuovere anche le ricerche di giovani autori. E in quella stagione gradualmente si legò in amicizia ad alcune delle figure che avrebbero segnato la storiografia italiana, da Cantimori a Chabod, da Saitta a De Felice.
Fu vicino, anche non condividendone le idee, ad alcuni dei giovani intellettuali che formarono nel 1944 il partito della Sinistra cristiana, e per loro rappresentò sempre un punto di riferimento sacerdotale, pure a seguito della condanna che li colpì. Ed ebbe rapporti con esponenti del mondo politico che avevano costruito la Repubblica (da Togliatti a De Gasperi, da Segni a Colombo) chiedendo loro sostegno per realizzare le sue opere editoriali. Ma la stagione più densa fu quella vicino a Giovanni XXIII, che con la ricerca storica aveva grande dimestichezza. Roncalli già da Patriarca di Venezia lo aveva coinvolto sul tema della storia della pietà veneta. Da Papa lo nominò prima consultore, e poi membro della Pontificia Commissione preparatoria degli studi e dei seminari. Il “Papa buono” era convinto che la cultura storica dovesse essere bagaglio indispensabile per il buon sacerdote e per il cristiano. Quando ormai, vicino alla fine, fu ricoverato al Fatebenefratelli sull’Isola Tiberina, don De Luca ricevette la visita del Papa che gli regalò un’ultima grande gioia. Don Giuseppe si spense in quell’ospedale il 19 marzo 1962.
Da Romasette.it